C’era Una Volta Gioânn – 100 anni di Gianni Brera

Editoriale

Novembre 20, 2024

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“Un inquilino mio di me ritmava anche versi, però troppo facili per convincermi che meritasse di venir preso sul serio, la prosa nasceva ogni giorno dalla necessità cronistica; il giornalismo e la povertà, hanno strangolato lo scrittore che forse mi abitava”.
In questa frase, scritta su La Repubblica, nel 1987, l’ultimo giornale per cui scrisse, cinque anni prima di morire in un incidente stradale, è racchiusa tutta l’essenza di Gianni Brera, giornalista sportivo, scrittore, polemista, cacciatore, intenditore di vini e amante del ragù d’oca (che gli fu fatale: l’incidente stradale avvenne proprio dopo una cena a base di quel condimento).
Gianni Brera, nato a San Zenone al Po, nel 1919, sembrava un giornalista sportivo, quasi per caso, tanto fu innovativo nel linguaggio, nell’approfondimento dei concetti, nel porsi polemicamente sempre dalla parte meno frequentata della barricata.
Lo testimoniano i testi e coloro che lo hanno conosciuto, del quale tracciano un profilo con grande rispetto e commozione.
Sono loro, assieme a critici letterari e professori di letteratura a riconoscergli il primato di aver innovato un linguaggio, fino alla sua venuta, paludato e scontato, come quello del giornalismo sportivo.
“Contropiede”, “centrocampista”, “melina”, “goleador”: sono solo alcuni termini da lui coniati ed oggi a pieno titolo entrati a far parte del linguaggio comune. Più ricercati, e raffinati, alcuni soprannomi affibbiati agli atleti: Bruno Conti diventa il “pelasgio”, Gianni Rivera l’ “abatino” e Osvaldo Bagnoli, addirittura “Schopenhauer”.
Insomma, un rarissimo insetto in un ambiente dove, dopo di lui, niente fu più come prima, come testimoniano alcuni ex colleghi, Gianni Mura e Mario Sconcerti su tutti, anche loro, nel frattempo, scomparsi.
Ma il giornalismo, come lui stesso ci dice, ebbe il sopravvento e tarpò le ali allo scrittore e al poeta, ma non alla sua vena polemica che lo portò ad aspre e a volte anche impopolari battaglie. Come quelle contro i sostenitori del “bel gioco”, inimicandosi l’Arrigo Sacchi del Milan delle meraviglie, o la mai celata antipatia verso una città come Napoli, a cui però invidiava l’azzurro del cielo, pur dichiarandosi orgogliosamente padano (ma definendo Bossi, uno che ha la faccia di un padrone di una casa di tolleranza). Così come non nascose di non amare scrittori suoi coetanei, che come lui segnarono un’epoca del nostro Paese, come Pasolini, Umberto Eco e Giovanni Arpino (con il quale condusse un’aspra polemica, fino alla morte di quest’ultimo).
Del resto, come amava dire: diffidate dei simpatici, sono uomini privi di personalità che vogliono solo compiacere.

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