Nando Paone. L’uomo, l’artista, i mille volti

Marzo 24, 2024

“Se hai un sogno, fai tutto il possibile e parte dell’impossibile per realizzarlo”

Non ha bisogno di presentazioni, Nando Paone.

Amatissimo dal pubblico per le sue memorabili interpretazioni nelle commedie di Vincenzo Salemme (In particolare “Premiata pasticceria Bellavista” e “…E fuori nevica!” dove ha interpretato il protagonista Cico) e noto anche per la partecipazione alla famosissima pellicola “Benvenuti al Sud” e serie tv di successo come “Mina Settembre”, l’attore originario di Bagnoli vanta numerose esperienze teatrali e cinematografiche nazionali ed internazionali, forse poco conosciute dal pubblico più giovane.

Tra queste, merita di essere ricordato il primo film dove ha esordito nel 1977, poco dopo il suo trasferimento a Roma. Si tratta di “Doppio delitto”, al fianco di Marcello Matroianni, diretto da Steno. Ricordiamo anche “Caro papà” (1979) di Dino Risi dove ha recitato al fianco di Vittorio Gassman, che rincontrerà anche sul set di “Camera d’albergo” di Mario Monicelli nel 1981.

Da segnalare, inoltre, due film con la regia di Michele Lupo a fianco di Bud Spencer, “Lo chiamavano Bulldozer” (dove interpreta il ruolo del giocatore della squadra italiana di football americano meno dotato a livello atletico), e “Bomber”, che incontrano un notevole successo di pubblico.

Per la sua conoscenza dell’inglese e del francese incontra anche produzioni straniere, tra le quali l’anglo-americana di “The Day Chryst Died”, diretto da James Jones.

In televisione, invece, ricordiamo il suo debutto nel 1980, al fianco del compianto presentatore Fabrizio Frizzi, nel primo vero varietà per ragazzi: “Il barattolo”, che in quell’anno vincerà il Microfono d’argento.

In teatro, ha lavorato con Eduardo e Luca de Filippo, Mariangela Melato, Peppe Barra, Marina Confalone, Francesco Paolantoni, Umberto Orsini, Ida di Benedetto, Antonio Casagrande (padre di Maurizio), il già citato amico e collega Vincenzo Salemme, e tantissimi altri nomi che, a volerli elencare tutti, non potremmo farcela in queste poche righe.

Le curiosità sulla sua vita e sulla sua carriera sono davvero tante, per cui adiamo ad intervistarlo, approfondendo in modo particolare la sua ricca esperienza in teatro.

Sig. Paone, cominciamo a parlare dei suoi successi più recenti. Si è da poco conclusa la tournée di un caposaldo del teatro dell’assurdo: “La lezione” di Eugène Ionesco, con la regia di Antonio Calenda, dove ha interpretato un professore un po’ “particolare”. Quali sono state le difficoltà nell’approcciarsi a un testo caratterizzato da una comicità così paradossale, eppure così forte nel messaggio lanciato, delineando lo spaccato di una società che storicamente non è così lontana da oggi?

Le difficoltà sono state per lo più di memorizzazione di questo splendido testo, appunto, del teatro dell’assurdo: venivo, come parlerò più avanti, da uno sforzo mnemonico notevole, con lo studio e la messinscena di “Sagoma”, un monologo del quale parlerò più avanti, e quindi memorizzare un altro fiume di parole è stata dura, ma come al solito l’entusiasmo di intraprendere lo studio di un autore come Ionesco, che ho da sempre apprezzato, ma messo in scena per la prima volta, mi ha galvanizzato e il risultato mi ha regalato grandi soddisfazioni.

Tra la fine del 2023 e l’inizio del 2024, ha invece debuttato con “Sagoma- monologo per luce sola” di Fabio Pisano (scritto proprio per lei) diretto da Davide Iodice, tornando a lavorare assieme al regista dopo “Hospes-itis”. In che modo è nato questo spettacolo e com’è stato affrontare la scena con un monologo?

Non è la prima volta che mi cimento da solo (e in verità in “Sagoma” non sono solo in scena, ma con il giovane Matteo Biccari, il quale, pur senza battute, costituisce le basi per un dialogo tra me e il mio alter ego). L’idea nasce da una mia proposta, in seguito divenuta impraticabile per motivi di sovrapposizione (stava per essere messo in scena da un’altra produzione). Si trattava di Blondie, un testo di Sgorbani, che rimane per ora nel cassetto in attesa che decanti, per affrontarlo in seguito. Dal “fallimento” di questa proposizione, con Davide Iodice decidemmo di provare a cercare un’altra soluzione, per la gioia reciproca di lavorare insieme. A questo punto Fabio Pisano, già collaboratore di Davide e giovane drammaturgo in stato di grazia, propose questo monologo che mi riguarda strettamente, anche se Fabio ed io non ci conoscevamo personalmente, e ho avuto una vera e propria folgorazione, gettandomi a capofitto nella sua realizzazione.

Sempre nel 2023, ha nuovamente recitato diretto da Armando Pugliese ne “La compagnia del sonno” di Roberto Alajmo. Lei aveva già lavorato con Pugliese, prima nel 1989 con “Guappo di cartone” di Raffaele Viviani, poi nel 2007 e nel 2009 con altri due grandi classici del teatro napoletano: “Miseria e nobiltà” di Eduardo Scarpetta e “Uomo e galantuomo” di Eduardo de Filippo. A parte le lavorazioni avvenute a distanza piuttosto ravvicinata, com’è stato ritrovarlo dopo molto tempo (rispettivamente, quasi vent’anni dalla prima e quasi quindici anni dall’ultima volta che l’aveva diretto) e quali differenze ha riscontrato?

Armando Pugliese è ritenuto a pieno titolo un regista prolifico e fantasioso, oltre che di grandissimo spessore. Ama gli attori e gli attori lo amano, per cui rivederci dopo tanti anni è stato come ritrovarsi dopo solo un giorno dall’ultimo incontro.

Lei ha avuto l’onore di essere stato diretto sia da Eduardo de Filippo che da suo figlio Luca. Cosa le ha trasmesso l’uno e cosa l’altro, pur condividendo il medesimo DNA e la medesima “scuola”?

Ho preso parte come attore alle prime commedie della compagnia di Luca De Filippo che erano dirette da Eduardo. Luca mi avrebbe diretto solo qualche anno dopo ne “Il piacere dell’onestà” con la compagnia del teatro Eliseo, con Umberto Orsini. Eduardo mi ha trasmesso la dedizione a questo mestiere (la passione era già viva in me) e la serietà nell’affrontare questo mestiere che definirei quasi una missione. Luca aveva la stessa stoffa del padre (con le dovute proporzioni) soprattutto dal punto di vista imprenditoriale (ovviamente senza nulla togliere alla valenza artistica), e lo ricordo come un caro amico, un collega spassoso, forse anche per la vicinanza di età. Per Eduardo provavo un timore reverenziale e una ammirazione tali da non poter fare altro che ammirarlo e tentare di compiacerlo.

Tra i tanti personaggi da lei interpretati, a quale si sente più affezionato e perché?

È logico che alcuni dei personaggi interpretati, sia in teatro che in cinema, rispondano al mio gusto per affezione (penso a Cico di “E fuori nevica” di Salemme o ad Alessandro de “I dolori del del corpo” di Cetty Sommella) ma sarebbe ingiusto non dichiarare che tutti, davvero tutti, mi sono rimasti un po’ incollati addosso e li porto sempre con me. Quindi farei un torto a quelli non citati, penso a Ghigo di “Lo chiamavano Bulldozer” o a Costabile Piccolo di “Benvenuti al Sud”. Perché credo che un personaggio interpretato vada innanzitutto amato, dunque, se si parla di amore, lo ho amati tutti, ma veramente tutti.

Le andrebbe di parlarci del suo sodalizio artistico e umano con Vincenzo Salemme?

Vincenzo era ed è un mio amico fraterno. Negli ultimi tempi, per reciproci impegni, riusciamo a vederci molto poco, ma non manchiamo di sentirci, ogni tanto. La collaborazione con Vincenzo, durata quasi un decennio, ha rappresentato una fase felice del mio percorso, perché nessuno come lui conosce i lati più reconditi della mia “espressività” e abbiamo insieme lavorato, sotto la sua direzione, raggiungendo obiettivi importanti dal punto di vista professionale che hanno ulteriormente consolidato la nostra amicizia.

Sempre a proposito delle sue collaborazioni con Salemme, ricordiamo alcune commedie che sono state trasposte cinematograficamente (“L’amico del cuore”, “…E fuori nevica!”, “Una festa esagerata”). In genere, trasformare una commedia teatrale in un film è un’operazione un po’ rischiosa e non sempre riuscita. Secondo il suo parere, ha funzionato utilizzare il linguaggio cinematografico per delle opere che sono nate in teatro?

Quando le opere teatrali si prestano al cinema, come quelle di Vincenzo, il gioco è abbastanza semplice. Va detto, comunque, che lui ha sempre saputo “adattarle” al cinema, ripensando ad ambientazioni e modalità tecniche più consone al cinema e i risultati (anche di botteghino) si sono visti chiaramente.

Continuando a parlare di linguaggi differenti, lei è un attore di straordinaria versatilità: spazia, e lo fa in maniera molto disinvolta, dal teatro al cinema e alla serialità televisiva (che sta prendendo sempre più piede e la città di Napoli ha avuto un vero e proprio “boom” di fiction di successo negli ultimi anni). Quanto è stato importante per lei partire da un background teatrale?

Credo che per un attore la preparazione teatrale sia obbligatoria. Non esiste, secondo me, l’attore di cinema, quello televisivo, quello radiofonico: un attore è un attore, punto. Ma sostengo che per essere un attore la strada inizi necessariamente dal teatro.

A Pozzuoli, nel 2010, è nato il Teatro Sala Molière, uno spazio nato grazie al suo sodalizio artistico e di vita con sua moglie Cetty Sommella (scomparsa prematuramente nel 2021, ndr) Uno spazio che non solo ospita spettacoli da più di tredici anni, ma che è anche dedicato alla formazione teatrale con un laboratorio da lei tenuto. A tal proposito, cosa consiglierebbe alle nuove generazioni di aspiranti attori, in relazione anche al periodo storico che sta vivendo il mondo dello spettacolo?

Il nostro mestiere è in crisi dai tempi di Aristofane, ed è per questo che lo definisco una missione. Questo è quanto principalmente cerco di trasferire alle giovani generazioni che partecipano al mio laboratorio, insistendo su un punto in particolare: se hai un sogno fai tutto il possibile e parte dell’impossibile per realizzarlo. Poi magari la vita può anche portarti altrove con altrettanta soddisfazione, in quel caso avrai comunque ricevuto dal teatro messaggi e lezioni di vita.

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