L’eterno lascito di Pippo Fava

Editoriale

Gennaio 5, 2024

Il suo coraggio nel sangue della nipote Francesca

Quaranta esatti. Essi sono gli anni passati da quando Pippo Fava, intellettuale carismatico e impegnato, è morto, assassinato per ordine del boss Nitto Santapaola, su cui lo stesso Fava stava indagando laddove gli altri giacevano nella loro omertà.

A che serve essere vivi se non si ha il coraggio di lottare?

Era questo l’interrogativo a cui si appellava, interrogativo sul quale sua nipote Francesca Andreozzi ci ha costruito uno stile di vita dedito alla legalità e alla tutela dei più fragili, come ci racconterà lei nell’intervista che segue.

Quando suo nonno è venuto a mancare lei aveva solo cinque anni. Nonostante ciò, quali sono i valori principali che le sono stati tramandati attraverso i racconti altrui?

Quando mio nonno è stato ucciso io avevo 5 anni e recitavo in “Pensaci, Giacomino!”.

Di lui ricordo il sorriso, l’allegria e poco altro. Ho imparato a conoscerlo attraverso i racconti della mia famiglia, in primis di mia madre, mio zio, mia nonna; ho continuato a conoscerlo col tempo leggendo i suoi scritti.

I valori che mi sono stati tramandati da lui e da mia madre, che per trent’anni ha portato la sua testimonianza nelle scuole in qualità di familiare di vittima della mafia, sono la giustizia sociale, la ricerca della verità e l’etica professionale.

Sono gli stessi valori che oggi porto io nelle scuole e nel lavoro con gli adolescenti, sono i valori che, come zia, vorrei riuscire a tramandare anche ai miei nipoti.

Come e perché nasce il progetto VeLegalmente, e come mai ha optato per la barca a vela come strumento utile al processo educativo?

Riparto proprio dai valori di giustizia sociale e di etica professionale.

Ritengo che ognuno di noi abbia la responsabilità di fare il proprio lavoro nel miglior modo possibile, mettendoci dentro i valori in cui crede.

Per me lavorare a Catania come psicoterapeuta ha significato da subito rivolgere la mia attenzione alle cosiddette “fasce deboli”, a quelle persone che, pur avendone bisogno, non sarebbero mai arrivate a chiedere un supporto psicologico, sia per questioni economiche che culturali.

Per questo motivo anziché aprire uno studio professionale, insieme ad un gruppo di amici e colleghi ho costituito un’associazione no profit.

L’idea di utilizzare la barca a vela come setting per il lavoro con gli adolescenti è arrivata qualche anno dopo, quando ho sperimentato la vela come sport, modalità di viaggio, ma soprattutto come setting relazionale, in cui è indispensabile la collaborazione e diventa più semplice confrontarsi con se stessi e con gli altri.

E in effetti poter lavorare in un contesto diverso, in mezzo alla natura, dovendo affidarsi alle proprie forze nel rispetto delle regole, aiuta a sbloccare resistenze e pregiudizi, a mettersi in discussione e a guardare il mondo e se stessi da una nuova prospettiva.

Il viaggio, il mare e la barca a vela rappresentano preziosi strumenti di supporto a processi educativi, di riabilitazione ed inclusione sociale già da decenni.

L’associazione che presiedo (Centro Koros APS) fa parte da più di 10 anni dell’Unione Vela Solidale, che riunisce realtà in tutta Italia che utilizzano la barca a vela in progetti e percorsi rivolti a persone con disagi fisici, intellettivi e socio-relazionali.

Parliamo dei ragazzi presi da lei in cura. La cultura dell’antimafia riesce a penetrare con facilità nelle loro menti, o talvolta essa è ancora una sorta di tabù difficile da sdoganare?

La cultura mafiogena oggi continua ad avere una forza attrattiva potentissima per i giovani, a prescindere se il contesto in cui sono nati sia sano o in cui l’illegalità è la normalità.

Serie tv e brani musicali contribuiscono in alcuni casi ad alimentare il fascino della mafia, e come dicevo prima è necessario un lavoro profondo e costante per mettere in discussione situazioni e codici di comportamento già radicati nei ragazzi.

E poterlo fare in un contesto “altro”, lontano dalle etichette, favorisce la possibilità di crescita e cambiamento. Ma l’ingrediente fondamentale è la relazione, ed io portando la mia testimonianza, raccontando la storia di Giuseppe Fava, mostro come una storia dolorosa può essere elaborata, trasformando la rabbia in impegno.

Raccontando la mia storia offro un altro punto di vista, che non impongo loro: Anzi, quello che gli restituisco è la responsabilità: sono loro, siamo noi, a scegliere da che parte stare, se con la mafia o contro la mafia.

La mafia negli anni è mutata, così come è mutata l’attenzione dello Stato verso essa. Come vede il ruolo di quest’ultimo? Pensa che la strada tutt’ora percorsa sia corretta, o che ci siano delle falle in essa?

C’è ancora moltissima strada da percorrere, lo Stato non ha messo la lotta alla mafia tra le sue priorità. Faccio solo un esempio che riguarda l’ambito di cui mi occupo come professionista: Catania continua ad essere al vertice delle classifiche per dispersione scolastica e devianza minorile, vuol dire che qui lo Stato (e le istituzioni che lo rappresentano) ha fallito.

Se suo nonno fosse qui, cosa gli direbbe?

Questa è la domanda più difficile, non c’è una cosa sola che vorrei dirgli, dipende delle giornate, da quello che mi succede, da quello che accade nel mondo.

Gli farei tantissime domande, lo ringrazierei per i suoi insegnamenti, gli direi che mi manca, ci manca.

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