“Mi ispiro al “Teatro politico” che Dario Fo e Franca Rame hanno realizzato tutta la vita.”
Dal Sud ai grandi premi culturali nel mondo, Valerio Manisi si destreggia ricevendo riconoscimenti e ovazioni in ogni campo dell’arte, dal teatro al cinema, passando per la scrittura e la grafica.
Il suo operato punta al racconto senza filtri di temi forti e sensibili, continuando negli annali a descrivere ciò che accade nel mondo, e nel suo mondo.
Partendo dal basso, l’autore tarantino ha collaborato con artisti del calibro di Alvaro Vitali, Nino D’angelo e Giacomo Rizzo, riuscendo a coniugare estro e militanza laddove inserisce il suo tocco.
A raccontarci tutto ciò, è lo stesso Valerio Manisi.
Lei è uno scrittore, attore, regista, drammaturgo e anche illustratore, esempio di come si possano esplorare e approfondire anche più campi e argomenti differenti gli uni dagli altri. Da dove nasce questa passione smisurata per l’arte in tutte le sue forme che le ha permesso di potersi destreggiare con esse?
Scopro sempre più, col passare degli anni e (ahimè!) l’avanzare dell’età, che probabilmente la mia incontenibile ed energica voglia di “elaborare” arte è dovuta alla volontà irrefrenabile di dire qualcosa. Di riflettere su questioni sociali e culturali in genere. Di smembrare tutto ciò che lede diritti acquisti. Infatti, tutto ciò che ho realizzato è frutto di una discussione, di un approfondimento.
Forse perché l’arte è ancora l’unica forma di comunicazione libera che ci è rimasta. Quella che riesci a costruirti da solo o con un gruppo di persone (come nel caso di una messinscena o di un film) che condividono un pensiero e lo vogliono donare agli altri.
Un attore può recitare una parte anche solo perché pagato, ma se lo tocchi nel profondo può nascere una complicità potentissima. E poi perché mi piace pensare che il mio possa essere un tentativo di portare avanti (indegnamente, sia chiaro!) il “Teatro politico” che Dario Fo e Franca Rame hanno realizzato tutta la vita. Ma anche come ha fatto Eduardo, Viviani e tanti altri autori dell’umano e del sociale.
Nel 2019 è uscito il suo cortometraggio “Vivi la vita”, con protagonista Alvaro Vitali al suo primo ruolo drammatico. Qual è stata la sua esperienza nel poterlo dirigere all’interno di una veste così seria, e nel vederlo muoversi in quei panni in cui nessuno lo aveva mai inserito in prima persona?
È stata un’esperienza singolare. Vedere colui che resterà alla storia come maschera di Pierino muoversi nei panni di “Alvaro” (ho lasciato il suo nome anche al protagonista del film), uomo nostalgico e penitente, non l’aveva mai fatto nessuno. Proprio perché, probabilmente, nessuno ha mai tentato di strappargli di dosso quegli abiti da monello dispettoso e costantemente arrapato per tentare di andare “oltre”.
Il suo volto, tracciato dal tempo, dall’età e da qualche delusione, m’è parso perfetto per riportare l’attenzione di ognuno sull’importanza del “tempo che passa”; per non sottovalutarlo e non sprecarlo con futilità. Quindi, ho pensato che tutto ciò lo si poteva raccontare in modo più efficace con un uomo dalla “vita vissuta”, come in questo caso è il protagonista del film e il suo interprete. Ho fatto il tentativo di parlare a tutti coloro che vivono senza vivere veramente.
Infine, lavorare con lui (che in quel periodo non stava benissimo per via del raffreddore) è servito a confermare che oltre a un grande comico, Alvaro Vitali è anche un attore di tutto rispetto e preparato. Non appena scattava il ciak ogni problema spariva. È stato talmente bravo che “Vivi la vita” ha fatto il giro del mondo, incassando premi e nomination.
Parliamo adesso del suo corto “Sciamu”. Attraverso il mezzo visivo lei ha raccontato un tema ostico e sensibile come quello dell’impatto ambientale e clinico dello stabilimento ILVA sul territorio tarantino e non solo. Come vede il ruolo dello Stato e dei cittadini riguardo ciò? Lei pensa che l’arte, nel suo racconto e nella sua denuncia, sia supportata da essi, o è ancora sola a se stessa?
I cittadini non hanno più nessun ruolo. E nel caso in cui lo avessero, non è più utile. Non funziona più.
Perché, in quanto “elettori”, chiunque venga a propagandare soluzioni ambientali verso la mattanza che quello stabilimento provoca (lo hanno fatto tutti: da Renzi a Meloni, da Salvini e Conte, da Fitto a Vendola a Emiliano) tutti poi si sono automaticamente “bloccati” per via delle dinamiche di banche, sindacati poco efficienti e manager che devono giustificarsi la pagnotta.
Ma non affermo nulla di nuovo. Basta pensare che se a Taranto esiste un reparto oncologico pediatrico per bambini malati di cancro e leucemia, non è grazie a nessuna istituzione ma alla buonanima della povera Nadia Toffa, il progetto “Ie Jesche Pacce Pe Te” e la gente comune che ha messo le mani in tasca. Lo posso dire con cognizione di causa, quando nacque quel progetto fui io il primo a promuoverlo in radio.
Per salvare Taranto (e non solo, perché quel Mostro massacra tutta l’area ionica e l’alto Salento) esiste solo una soluzione: chiudere. Quello stabilimento è un vecchio massacrato dall’osteoporosi che non ce la fa più a reggersi.
Invece di “decretare” stanziamenti “salva Ilva” (che sempre in un cratere nero di morte vanno a finire), lo Stato dovrebbe utilizzare quelle risorse investendo in un lavoro di bonifica che occuperebbe l’operaio dell’area jonica per almeno cinquant’anni. Punto! L’acciaio è morto. Come la dignità di tutti quei politici che a Taranto si sono affacciati.
E gli operai tarantini devono convincersi del fatto che non esiste solo il posto di lavoro nello stabilimento. Perché, prima o poi, ognuno di loro assiste alla morte di qualcuno.
L’arte è senz’altro un “supporto”. Se la gente si convince però che non si manifesta per essere funzionale a sé stessa, ma perché probabilmente c’è qualcuno che ha qualcosa da dire e che rappresenta un lungo percorso di studio, sacrifici e duro lavoro. Michele Riondino è appena uscito con un film magnifico al riguardo, “Palazzina LAF”. Contestato perché efficacissimo. E per questo è assolutamente da vedere!
Un’ultima domanda: lei ha dimostrato in opere come lo stesso “Sciamu”, il suo primo romanzo “Finché potrò vedere la luce” o l’ultima sua fatica cinematografica “Era ora!”, quanto il suo operato sia fondamentalmente militante. Le è mai capitato che questo suo coraggio, questa sua voglia di raccontare, si scontrasse contro l’omertà del mondo che la circonda?
Certamente! E paradossalmente è l’omertà di chi non ha il coraggio di discutere e aprire gli occhi che mi da sempre più la forza di andare avanti e lottare affinché quell’omertà venga rotta.
Sempre grazie a quell’innata volontà di dire la verità, perché ti consente di essere libero; ti fa gestire ideologia e irrazionalità. Non me ne faccio nulla del supporto falso. Anzi: se me ne accorgo pretendo che mi dicano perché è “falso”. Dove ho sbagliato? Dove hai sbagliato? Cosa non hai capito? Cosa non ho capito?
Promuovo sempre la “militanza”. Soprattutto quella che parte dal basso, che frequento da sempre; quella che discute e si confronta per le strade. Militanza franca e diretta.
Se qualcuno si azzarda a dirmi “a me non frega nulla della politica” me lo mangio! Perché sono gli stessi che poi si lamentano di tutto ciò che questa gli riversa addosso: tasse, super tasse, aumento di prezzi, disservizi, disoccupazione, sanità pubblica precaria, istruzione pubblica precaria, ingiustizie e addirittura manganellate.
Non si può immaginare quanto fastidio mia dia accettare un Governo votato da una manciata di elettori col tasso di astensionismo più alto della storia della Repubblica. La gente è morta per poterci concedere il diritto di voto. Senza parlare della mortificazione che prova ancora la donna in tutto questo e in quasi tutti gli ambiti.
Il Teatro, il cinema e la scrittura devono essere “militanti”. Le grandi scritture lo sono sempre state. La gente paga un biglietto per arricchirsi o sentirsi più ricca. Perché ci sono già fin troppi motivi di “svuotamento” impunito in quella che è diventata la società dei TikTok.
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